Cambodia – Da Kompong Luong a Kompong Thom

Choeung Ek

Un sorriso vince sempre

Mille giri e tante ore seduta su un autobus verso Krakor. Non perché le distanze siano impossibili o perché le strade siano particolarmente impraticabili, ma perché, come al solito, l’autobus deve avere al suo interno 5.000 persone, animali, scatoloni e casse prima di decidersi a fare qualche chilometro senza fermarsi. In braccio ho avuto due bimbi per gran parte del tragitto, seduti sopra al mio zaino che tenevo sulle ginocchia (l’alternativa era metterlo in testa, non c’era altro spazio “papabile”…!!!); un paio di galline rallegravano l’atmosfera, le gambe erano incastrate tra sacchi di verdura, legati dietro due motorini, un lusso il fatto che, sul tetto, non ci fosse praticamente una casa smontata come nella norma. Gli autisti di questi bus fanno un baffo a Ikea e al suo modo di smembrare e stivare materiale.

In ogni caso, da Krakor a Kompong Luong ho preso un tuk tuk e poi, in barca, sono andata a fare un giro tra i villaggi galleggianti, che si spostano in base alla stagione e, quindi, al livello dell’acqua. Ho conosciuto una ragazza, Cetra, che mi ha invitata ad entrare nella sua casa. Cetra ha una bimba con due occhioni meravigliosi, me ne sono subito innamorata anche se lei mi guardava in modo un po’ perplesso. Dalle quattro chiacchiere (meglio: dai quattro gesti… perché Cetra dice sì e no tre parole di inglese!) all’arrivo del marito che aveva pescato una cesta di pesce-gatto e, dunque, all’invito prima a cena e poi a fermarmi da loro per la notte… il salto è stato quasi automatico. Abbiamo cucinato assieme, abbiamo lavato i piatti (sciacquato, per essere precisi) nelle acque del lago, abbiamo condiviso frutta loro e biscottini miei che avevo nello zaino, mi sono resa conto di cosa significhi vivere come loro. A letto prestissimo, con il calare della luce e sveglia all’alba, quando tutte le barche riprendono a muoversi e, con loro, tutte le persone del villaggio.

Dal silenzio del lago e dai suoi ritmi lentissimi, legati alla luce del sole, mi sono poi tuffata nella frenesia totale e imperante di Phnom Penh. Un caos. Biciclette, motorini, auto, stradine, vicoli, gente, negozietti, bancarelle.

Ma che emozione trovare sempre un sorriso di fronte a me, un saluto, un cenno del viso o della mano. Mi sembrano sempre tanti regali, impacchettati e pronti per essere aperti ad ogni incontro.

Ho camminato moltissimo in questi giorni, ho assaggiato di tutto, ho visitato mercati, templi, musei… uno fra tutti il Tuoi Sleng, ex liceo adibito da Pol Pot a carcere di massima sicurezza col nome di S-21 dove le torture erano la normalità, una condizione amaramente quotidiana. Quel che mi fa impressione è la vicinanza nel tempo di tutto ciò ai nostri giorni, la cecità incosciente o voluta del resto del mondo per troppo, troppo tempo.

Un giorno sono andata ai campi di sterminio di Choeung Ek. C’è poco da commentare. Follia, cattiveria, perdita della ragione in nome del potere è ciò che mi viene in mente. Pensare che alcune persone venivano tagliate a pezzi usando parti di una pianta grassa, le cui foglie sembrano davvero delle seghe, fa davvero impressione.

Ne ho sentito parlare infinite volte nei nostri telegiornali, ho visto documentari e film legati a quanto accaduto. Ma esserci dentro, ascoltare le parole di qualche anziano che racconta di aver perso figli e amici, vederne le lacrime ricacciate in gola… ecco, questo fa un altro effetto. E fa capire quanto siamo piccoli di fronte a tutto ciò.

Le mie giornate sono sempre state ricche di emozioni, positive o negative che fossero.

Mi sono seduta sull’erba, di fronte al Palazzo Reale, insieme a centinaia di monaci e di cittadini normali che pregavano. Erano in attesa di qualcuno. Ho chiesto, ma non ho capito chi dovesse arrivare. E’ stato bellissimo vedere una macchia di colore così accesa, quella degli abiti dei monaci e la spiritualità insita anche nelle persone intorno a noi.

Ho incontrato un bimbo di circa 10 anni, elmetto in testa, viso sporco di polvere, mentre si spaccava la schiena in un cantiere. Già, anche questo è Cambogia.

E poi… poi i marciapiedi… adibiti più a showroom, nonché estensione sulla strada, di micro-negozi. O parcheggi. O luoghi per rilassarsi tirando delle amache tra due alberi. Oppure ottima ubicazione per gli stendi-biancheria. O discarica. O lavaggio per motorini. O barbieri. O ristorantino con qualche sediolina pieghevole. Altro che utile passaggio per pedoni! Ero più in mezzo alla strada per evitare scooter e auto in sosta, water e bidet esposti, stendini con vestiti più o meno nuovi che non sul marciapiede. Poi la sera tutto cambia. Ognuno ritira la propria merce e la gente tira fuori sedie e tavolini in plastica per mangiare, materassi buttati a terra, radioline e televisioni anni 70… e quello che prima era un negozio diventa una casa.

Qualche giorno fa ho dato spettacolo senza volerlo. In un mercato, ho trovato una signora che friggeva delle strane pastine seduta a terra. Non sapevo cosa fossero ma mi hanno incuriosita. Ne ho ordinate un po’, mi sono seduta e… nel giro di poco avevo mezzo mercato attorno a me. Chi mi prendeva la frittella in mano per farmi capire che, prima di mangiarla, dovevo intingerla in una salsina. Chi mi offriva da bere. Chi mi parlava e insisteva a farlo anche dopo aver compreso che non capivo una parola… ma magari si limitavano ad alzare un po’ la voce pensando che così capissi meglio. Morale della favola: forse erano frittelle di fagioli (forse…) da intingere in una salsina di pesce e cocco (forse…). Ma noooo… ad un certo punto ho capito che stavo sbagliandoooo! Le frittelle si dovevano prima spezzettare e buttare nella salsina, lasciando che si imbevessero… tipo pan biscotto nel caffè latte. E tutti che ridevano e mi offrivano altre frittelle…

Un capitolo a parte sono le strade e il traffico. Asfalto pieno di buche, lavori in corso ovunque, appena fuori dalla capitale terra rossa che ti colora e ti si imprime sulla pelle sudata come un tatuaggio. A volte mi sembrava di essere in Africa, in qualche strada sterrata dal colore rosso intenso. E il traffico. Regole stradali inesistenti, tuk tuk, motorini, auto in contromano quasi come pacifica norma di circolazione. Motorini con 6 persone ben incastrate una nell’altra. Magari con un neonato che sta poppando al seno della mamma, che sull’altra gamba è capace di tenere altri due bambini. Mi ha impressionata uno scooter: due persone… sììììì… solo due, ma uno guidava e l’altro sorreggeva il trespolino continuando la propria flebo in mezzo a un incrocio. E i minivan stivati fino al collasso, aperti dietro per far stare più persone, mezzi dentro e mezzi fuori.
Ma la gente sorride. Ti guarda e sorride. Saluta. E sorride ancora.

A Kompong Thom ho conosciuto un signore anziano (seppure sia davvero difficile dare un’età alle persone…) con un tuk tuk. Gli ho chiesto di accompagnarmi a vedere il territorio circostante e in particolare il sito archeologico di Sambor Prei Kuk. Credetemi, è stato meraviglioso. Un po’ assecondava la mia curiosità, un po’ mi consigliava e portava dove lui credeva potesse essere emozionante per me. E intanto la polvere rossa della strada faceva da padrona anche su di me. La sera mi trovavo sempre ad avere il viso rosso con il segno degli occhiali da sole completamente bianco: una maschera! E che buche… penso che, al mio ritorno, il chiropratico diventerà ricco per riportarmi la colonna vertebrale in asse!!! Ma valeva la pena. Ho risalito una montagna sacra per raggiungere il tempio di Phnom Suntuk, ho passeggiato in mezzo alla foresta del parco archeologico di Sambor Prei Kuk in cui, disseminati qua e là, ogni tanto trovavo templi antichissimi lasciati allo status quo. Alcuni di essi erano in parte inglobati in maestosi alberi, i cui rami e le cui radici sembravano avvolgere amorevolmente strutture in pietra quasi a volerle preservare e proteggere dal resto del mondo. O dalle mani degli uomini.

CAMBODIA 04 - Da Kompong Luong a Kompong Thom - 2014

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